I chilometri fatti oggi, in linea d’aria, non rendono giustizia. Quello che è successo, le immagini che portiamo negli occhi stasera coricandoci a letto, saranno una delle avventure più incredibili di questo viaggio.

Tutto comincia stamattina. Nel gelo di Glenwood ci ritroviamo a fare la classica riunione tattica mattiniera, per decidere cosa si andrà a fare durante la giornata.

Il piano è preciso. Arrivare entro sera a Salt Lake City. Domani c’è una partita di NBA e sarebbe moralmente inaffrontabile per molti di noi venire negli Stati Uniti e non assistere ad un incontro.
Solo che per arrivare a Salt Lake City ci sono due strade: una bassa, di pura freeway, noiosa e che avremmo dovuto ripercorrere una volta scendendo lo Utah, e una alta, in mezzo al nulla cosmico, senza particolari punti d’interesse e pure un’ora più lunga della precedente.

Ma si sa, una delle regole del BigTour è non ripercorrere all’indietro la stessa strada. Per cui optiamo per quella alta.

Incarichiamo Akira di essere la macchina 1 per la giornata. Chi è la testa della carovana ha il compito di guidare tutti verso la meta e gestire tutti i momenti di pausa/esplorazione che accadono solitamente in una lunga traversata.

Akira quindi trova un parco non molto lontano da dove siamo partiti e ci guida tutti dentro al Colorado National Monument.
Subito notiamo che il paesaggio si trasforma, cominciamo ad apparire rocce rosse attorno a noi. Quelle che all’inizio erano montagne si tramutano in veri propri canyon. Uno spettacolo.

Risaliamo la “mesa” scattando trilioni di fotografie fuori dai finestrini e passando qualsiasi tipo di musica epica in macchina. Certi paesaggi meritano già le prime lacrime di emozione.
Per non farci mancare nulla abbiamo ricevuto anche il saluto del ranger, che ha provveduto a cazziarci auto per auto dicendoci di non sederci sulle portiere per scattarci i selfie.

Continuiamo la strada che, a detta delle mappe, ci avrebbe riportato sulla freeway attraversando una parte del parco. Invece questa strada va avanti, sempre più avanti, entrando nel nulla.

Ci rendiamo conto presto che attorno a noi, da qualsiasi parte volgiamo lo sguardo, non c’è civiltà.

Siamo soli. E percorriamo una strada ghiacciata senza fine, nell’immenso.

Siamo talmente abbagliati da tanta vastità che non ci rendiamo conto che la strada senza fine… è veramente senza fine. Corriamo chilometri e chilometri senza vedere un cartello, un bivio, un minimo segno che la strada avrebbe potuto ad un certo punto riconnettersi con la freeway.

E, inesorabile, il destino ci ricorda che non possiamo sempre essere fortunati. Per cui Niagara entra in riserva.

Non possiamo tornare indietro, troppa strada. Non sappiamo dove stiamo andando, il telefono non prende. Per cui continuiamo, pregando ogni secondo che Google Maps ci possa tirare fuori dal bellissimo ma sperdutissimo niente.

Troviamo campo. Scarichiamo la mappa.
Perfetto: c’è una stradina invisibile che solo i veri indigeni conoscono, che costeggia il fiume Colorado e arriva a Moab. Non era la nostra meta finale, ma è una città, e abbiamo disperato bisogno di fare benzina (e mangiare).

Così cominciamo a percorrere la stradina, che ci porta nel nulla più nulla ancora più nulla. I paesaggi sono maestosi. Conteniamo a malapena le lacrime. Guardando l’infinito attorno a noi, fatto di neve e arbusti bassi (pianure di stracciatella a detta di qualcuno).

Troviamo parecchie discese brutte, rischiamo un sacco di volte di tamponarci uno con l’altro, perché appena tocchi il freno ti fai i metri in slittata prima di fermarti. Cominciamo a lavorare in squadra, affrontando le discese fangose uno alla volta, dandoci i via libera per radio una volta scesi.

Tutto sembra funzionare. Le discese si trasformano in pianura. Costeggiamo il fiume per qualche chilometro tranquilli, quando dalla testa della carovana arriva il messaggio in radio:

“Ma dobbiamo attraversare il fiume?”

“Si ragazzi, attraversate il ponte che vedo nella mappa e aspettateci che poi c’è la statale!”

“…. qui non c’è nessun ponte.”

Ecco. Il destino di nuovo ci ha voluto fare un bello scherzo. A pochi chilometri dalla meta.
Bastardo.

Guadare il Colorado è impossibile. Vediamo l’altra parte, l’acqua non è così alta, ma il fondale è visibilmente mollo e noi non abbiamo delle macchine proprio così leggere.
It’s over. Dobbiamo tornare indietro. Ma non possiamo farlo tutti.

Niagara, che fino all’ultimo abbiamo sperato di portare in salvo, non ha fisicamente carburante sufficiente per rifare la strada al contrario.
Dobbiamo lasciarla qui.

Scarichiamo lo stretto necessario, mettiamo il suo equipaggio nelle altre auto e la accostiamo a bordo della strada. Nel nulla, a pochi chilometri dalla fine del nulla, accanto al fiume Colorado. La torneremo a prendere domani.

Così ci rimettiamo in marcia. Ripercorriamo all’indietro tutta la strada innevata, affrontando le discese che si sono trasformate in salite a turno, tenendoci in contatto con le radio.

Siamo stanchi, affamati, demoralizzati. Cerchiamo di tenerci su uno con l’altro raccontandoci storie e cantando le canzoni più impossibili. Per fortuna che siamo nel mezzo di un paesaggio da togliere il fiato, che ci fa dono dei suoi ultimi minuti di luce. Un tramonto pazzesco colora di rosso la neve attorno a noi. È uno spettacolo che pochi dimenticheranno.
A volte le avversità peggiori nascondono gli attimi più belli.

Arriviamo al fotofinish, due ore e mezza dopo, al primo benzinaio fuori dal parco.

Ci rifugiamo in albergo e divoriamo anche i tavoli del Denny’s lì accanto.

Domani un gruppo proseguirà verso Salt Lake, mentre un altro recupererà Niagara in mezzo al nulla.

Che giornata incredibile.